Ivan Gismondi (sopra) e il figlio Nadir
(ASAPS) IMPERIA, 9 marzo 2010 – La strada è bastarda. Perché fa quello che vuole, gioca con le nostre vite, quelle degli altri. Le fa incrociare, a volte il tempo di fulminare qualcuno con un’occhiata in cagnesco per una precedenza non rispettata, altre giusto l’attimo di dire grazie, per averla concessa. C’è il sorriso incredulo stampato sulla faccia di un pedone al quale permetti di attraversare sulle strisce (il nostro paese è così), e poi c’è n’è uno stampato sull’asfalto, perché a lui qualcuno quel permesso non l’ha dato.
La strada è libertà. Di prenderla, imboccarla e partire, verso una meta qualunque.
La strada è piena di storie, che a raccontarle fai notte.
Ma non ti ci stanchi mai, perché sa sempre lasciarti senza parole.
Qualche anno fa abbiamo ideato una campagna che molti hanno definito, apprezzandola, un pugno nello stomaco: “E’ meglio che torni a casa un figlio senza patente che una patente senza figlio”.
Perché, pensavamo, che solo portando la gente a riflettere sulle conseguenze di un’ebbrezza non scoperta in tempo – esattamente come una malattia – la cura preventiva sarebbe stata da tutti ritenuta come il metodo per salvare una vita.
Poi leggiamo sui giornali la storia di Ivan Gismondi, Vigile del Fuoco di Imperia, ed ecco che le nostre certezze, fondate su decenni di esperienza professionale, vacillano. Ivan aveva un figlio, Nadir, anche lui Vigile del Fuoco, che prestava servizio come volontario. Il futuro gli riservava un posto col babbo, sull’Eurofire in sirena?
Le cronache ci dicono di sì. In una notte di giugno dello scorso anno, Nadir – studente modello, militare esemplare e poi aspirante effettivo nei ranghi dei VF, stava tornando a casa in auto; aveva bevuto qualche bicchiere di troppo e quando lo fermò una gazzella dei Carabinieri, l’etilometro segnò un valore superiore a quello legale: 0,7 grammi di alcol per litro di sangue.
Gli ritirarono la patente e gli fecero chiamare il padre, Ivan, a recuperare la macchina. Forse il papà si arrabbiò, forse no.
Però i giornali scrissero che Nadir temeva di non poter partecipare al concorso per Vigile del Fuoco permanente, a causa di quella macchia destinata di lì a poco a macchiargli la fedina.
Grave per il ruolo che avrebbe voluto ricoprire.
Pochi giorni prima c’era stato anche un incidente di moto e forse i due eventi ruppero in Nadir quel filo invisibile che ti lega alla vita, o che la rende degna di essere vissuta.
Entrato in camera sua, quella notte stessa, rivolse contro di sé una pistola detenuta per uso sportivo. Ivan si era trovato a casa un figlio senza patente e, poco dopo, era rimasto senza figlio.
A distanza di mesi, domenica sera, si è tolto la vita a sua volta, appendendosi a una trave della caserma e chiudendo, sconvolto, un’esistenza di generoso altruismo e di incredibile dedizione al dovere.
Noi non possiamo rimangiarci nulla di quanto invochiamo ogni giorno di più.
Lo facciamo perché non vogliamo che la gente muoia, perché preferiamo spillare una patente ad una denuncia per guida in stato di ebbrezza o ad un verbale di eccesso di velocità, piuttosto che chiudere quel documento in una busta da riconsegnare, insieme agli effetti personali di una vittima, ai familiari di quest’ultima.
Che si incazzano con te perché non sei riuscito ad arrivare prima che accadesse l’irreparabile e che ti fanno sentire colpevole.
I giornali scrivono, commentando la tragica notizia, che Nadir era risultato positivo di pochissimo. Ed è vero. Però quel pochissimo compromette fortemente i tempi di reazione, rende scoordinata l’esecuzione dei normali movimenti attuati alla guida “… e conduce sempre – sono parole dell’Istituto Superiore di Sanità – a gravi conseguenze …”.
In una ricerca che abbiamo terminato da pochi giorni, e che sarà tra breve pubblicata sulla nostra rivista Il Centauro, abbiamo scoperto che i casi di suicidio dopo il ritiro della patente (solo per ebbrezza), sono una realtà, l’ennesima, inesplorata. Forse, bisognerebbe tornare un passo indietro e rendere meno pesante, da un punto di vista delle conseguenze penali, almeno una prima fascia di trasgressione.
Perché se un ragazzo di vent’anni beve, non lo fa solo perché è giovane. Lo fa perché c’è una società che gli dice che bere è bello, è sballo, è trasgressivo. C’è anche chi dice che si può bere responsabilmente, ma ad un ragazzo serve la vita (e la salute), oltre che la patente.
E ad un padre serve che il figlio sia vivo, oltre che patentato.
A volte l’assioma si rompe ed allora alla tragedia si aggiunge la tragedia.
Niente statistiche o evidenze scientifiche, per stavolta.
Solo rispetto e commozione per un babbo ed un figlio che la strada ha prima separato e poi, da beffarda com’è, anche riunito.
Buon viaggio Ivan, buon viaggio Nadir. (ASAPS) |